Test sierologici: chiarimenti del Garante Privacy

test sierologici e privacy

A seguito della riapertura delle attività lavorative, si pone per il datore di lavoro nonché per il consulente privacy un’importante tema, ossia la delicata gestione dei test sierologici nei confronti del proprio personale.

Ancora una volta, il consulente privacy, deve svolgere un importante bilanciamento fra i diritti fondamentali della tutela della privacy – in questo caso con specifico riferimento al soggetto lavoratore – e di quello della tutela della salute, in primis dei propri colleghi e, più in generale, della salute pubblica.

E il compito si rileva particolarmente arduo se si pensa che l’effettuazione del test in commento dà origine al trattamento di dati relativi alla salute che, come ormai noto, rientrano nella nozione di dati di natura particolare ex art. 9 del GDPR.

Le prime risposte sul quesito di apertura sono state fornite dallo stesso Garante, il quale ha pubblicato una serie di “Faq” il 14 maggio scorso, con le quali si è cercato di fornire utili raccomandazioni sulla possibilità per le imprese di effettuare i test sierologici sul posto di lavoro.

Il Garante privacy, nello specifico, ha affermato che nell’ambito del protocollo di sicurezza anti-contagio (Par. 12), il datore di lavoro può richiedere ai propri dipendenti di sottoporsi al test sierologico solo se quest’ultimo è disposto dal medico competente o da altra o da altro professionista sanitario in base alle norme relative all’emergenza epidemiologica.

Se quindi solo il medico del lavoro può disporre l’effettuazione di esami e test diagnostici , ricadono in questi anche i test seriologici, qualora ritenuti utili al fine del contenimento della diffusione del virus e della salute dei lavoratori.

E sempre deve essere coinvolto il medico del lavoro per le identificazioni dei soggetti con particolari situazioni di fragilità e per il reinserimento nel contesto lavoratori del personale che ha contratto il virus.

Qualora si verifichi la positività al tampone è obbligatorio darne comunicazione nominativa al Dipartimento di sanità pubblica, tramite il medico competente.

A parere del Garante, il datore di lavoro non potrà trattare direttamente i dati derivanti dai test effettuati ma avrà facoltà di venire a conoscenza solo del giudizio di idoneità del lavoratore alle mansioni svolte, rispettando le prescrizioni che il medico competente potrà eventualmente disporre alla luce dell’indagine sanitaria svolta sul dipendente per contenere l’epidemia del Covid-19.

Precluso al datore di lavoro sono anche i dati relativi ad un eventuale contagio da parte dei familiari di un lavoratore mentre in caso quest’ultimo manifesti i tipici sintomi del virus durante l’orario di lavoro deve immediatamente comunicarli al proprio datore di lavoro.

Resta fermo che i lavoratori possono liberamente aderire alle campagne di screening avviate dalle autorità sanitarie competenti a livello regionale relative ai test sierologici Covid-19, di cui siano venuti a conoscenza anche per il tramite del datore di lavoro, coinvolto dal dipartimento di prevenzione locale per veicolare l’invito di adesione alla campagna tra i propri dipendenti (cfr. FAQ n. 10 – Garante privacy) dati nel contesto sanitario nell’ambito dell’emergenza sanitaria.

I datori di lavoro possono offrire ai propri dipendenti, anche sostenendone in tutto o in parte i costi, l’effettuazione di test sierologici presso strutture sanitarie pubbliche e private (es. tramite la stipula o l’integrazione di polizze sanitarie ovvero mediante apposite convenzioni con le stesse), senza poter conoscere l’esito dell’esame.

Strettamente connesso all’argomento, vi è poi un altro profilo di estrema rilevanza ossia quelle legato al regime di responsabilità civili e penali qualora un dipendente contragga Covid-19 sul posto di lavoro.

Il Decreto Legge n. 18 del 17 marzo 2020 all’articolo 42 comma 2 e la circolare Inail n. 13 del 3 aprile 2020 riportano l’infezione da nuovo coronavirus all’interno delle coperture Inail, fermo quanto disposto in caso di violazione di tali prescrizioni dall’articolo 40 comma 2 c.p. ossia di reato omissivo improprio, o reato commissivo mediante omissione.

Sotto il profilo probatorio, deve essere il dipendente a fornire la prova di essersi ammalato di Covid-19 in occasione dello svolgimento della propria mansione lavorativa.

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